L'altro giorno ho riacceso, per la prima volta, un telefonino, di quelli senza internet, di sedici anni fa. Il suo acquisto coincise con le mie prime supplenze.
Allora, i collaboratori scolastici si chiamavano bidelli; la scuola secondaria si chiamava media e superiore; gli assistenti amministrativi e tecnici si chiamavano applicati di segreteria; solo gli insegnanti si chiamavano insegnanti.
Quel telefonino ritrovato - e ancora oggi perfettamente funzionante - mi ha ricordato quando i suoi limiti facevano sì che il confronto professionale con i colleghi, le decisioni collegiali ecc. si prendessero sul momento, guardandosi negli occhi, sorridendo, arrabbiandosi, prendendo insieme un caffè.
WhatsApp, allora, erano le telefonate: i timbri e i toni di voce, il botta e risposta, la voglia di risentirsi quanto prima. L'sms era l'eccezione.
Oggi abbiamo delle stratosferiche apparecchiature elettromagnetiche con le quali, dopo esserci detti tutto attraverso una voce monocorde, attraverso le email, i Drive ecc. ecc., ci sentiamo, subito dopo, stanchi, vuoti, inappagati. Soli.
E così non ascoltiamo più quei toni di voce carismatici, semplici, scherzosi, stimolanti. Perché ci siamo già detti tutto prima; pertanto, non abbiamo più nulla da dirci nel momento in cui ci incontriamo.
In questo quadro, in cui gran parte della tecnologia ha sostituito il pensiero, la vita privata, la noia per noi necessaria e quant'altro, dovrebbe diffondersi una didattica che miri alla gioia, all'apprendimento delle emozioni, agli sguardi, allo svago, alla collaborazione, "all'incontro sano con l'altro?"
Riflessioni.
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La tecnologia è utile; tuttavia sono convinto che il suo uso sia ormai fuori controllo